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da 23/2/2015

Sempre la gente quando mi vede, mi chiede: “ancora danzi?”.
Cosa vorrà dire “ancora”?
Se io fossi una scultrice o una pittrice o una pianista nessuno mi direbbe “ancora crei?”.
Perché la gente mi domanda “ancora”?

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Racconta Maria Fux: “La danza è stata sempre per me una necessità di dare qualcosa, di esprimermi e trovare un punto di incontro con la vita che mi circonda; per questa ragione è presente nella mia esistenza con l’identico valore, con il medesimo senso e naturalezza del parlare o del camminare.
Cominciai ad essere me stessa con la danza forse a 4 o 5 anni, quando inventavo con qualsiasi musica.
Ricordo che quell’inventare e improvvisare aveva una tale forza che mi portava a fare la parte della ballerina in ogni riunione infantile tra cioccolatini, torte e spettatori della mia età, io trasformavo quell’improvvisazione nello spettacolo del compleanno.

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Non pensavo, né sognavo nient’altro che danzare. Però la parola danza era una temibile parolaccia per le orecchie di mio padre che aspirava, benevolmente, a vedermi proiettata in un altro futuro.
In questi anni mi sono spesso domandata perché ho questo interesse ad entrare nei limiti delle persone investigando i miei. Un giorno, come fosse una rivelazione, ho compreso: mia madre ha avuto una gamba rigida da quando aveva cinque anni; quando è arrivata con i suoi genitori e i suoi undici fratelli dalla Russia, fuggendo al Progrom, nel periodo in cui lo Zar uccideva gli ebrei, aveva un’infezione al ginocchio e nell’Ospedale per bambini di Buenos Aires hanno dovuto asportarle la rotula per salvarle la gamba, perdendo così completamente la possibilità di piegarla.

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Nella mia infanzia e nella mia adolescenza, il suo zoppicare e la sua gamba rigida producevano dolore nel mio corpo.
Senza dubbio lei condivideva i miei desideri per la danza. Non aveva mai ballato, però cantava e agitava le mani quando stirava i nostri cinque grembiuli per la scuola.

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Quelle mani che accompagnavano le sue canzoni erano anche le sue danze e credo, nel tempo, di essermi trasformata io stessa nella gamba immobile di mia madre, tramutandola in movimento dinamico.

“Yo soy la pierna de mi mamà que danza”

Io sono la sua gamba, le sue due gambe che non hanno mai danzato. La sua gamba rigida senza rotula è in tutto il mio corpo  e io sono la gamba di mia madre che danza. E’ stata lei che mi ha indicato l’altra strada in cui mi trovo: la strada di riconoscere nell’immobilità dell’altro la possibilità di dire “Si può”. Mi ha indicato il ponte: soltanto con amore si può dare all’altro la possibilità di crescere. Io sto crescendo e lei mi ha insegnato la via.
Con mio padre lentamente le cose cambiarono, tappa dopo tappa e attraverso la mia crescita, ho imparato a non essere arrabbiata con lui e ho cercato di mostrargli che attraverso la danza poteva esistere un altro mondo, un mondo meraviglioso che era il movimento. Papà lo ha compreso il giorno che è venuto a vedermi al teatro Colòn: quel giorno ha pianto e mi ha chiesto perdono.
Ho cominciato a studiare danza a 13 anni nello studio di Ekaterina De  Galantha, dove sono riuscita ad avere una borsa di studio. Dal magro stipendio della mia famiglia, la mamma toglieva venti centavos perché potessi prendere il tram n° 2 e andare da casa mia fino a Retiro dalla mia insegnante.

Maria Fux danza e danzaterapiaQuel mio problema di allora è un problema sociale che ancora oggi esiste in molte famiglie, perché i genitori temono tanto la danza? Per la cattiva informazione ed educazione ricevuta e perché non sanno che la danza e l’arte significano per il bambino un’esplorazione profonda della vita. Indubbiamente parlo della danza contemporanea perché la conoscenza e la formazione estetica del bambino, attraverso un insegnamento classico codificato ed esaltato da 300 anni, non può dare un cammino di creazione se non un tecnicismo pieno di difficoltà fisiche che restringono e danneggiano il suo mondo mentale, emotivo e fisico.
Insegnare ad un bimbo la danza nella sua forma più classica, partendo dall’idea che il culmine del movimento sia l’equilibrio sulla punta del piede, è una limitazione, si ricorre, in questo modo, alla vanità e agli elementi esterni alla danza, conformando una tecnica di sviluppo contraria alla sua evoluzione naturale.

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Isadora Duncan

A 15 anni l’influenza di un libro, che arrivò nelle mie mani (“Mi Vida” di Isadora Duncan), fu decisiva in quel desiderio di ricerca che sentivo palpitare dentro di me attraverso tante improvvisazioni. Scoprii che, oltre alla danza classica che studiavo, esistevano altri cammini sconosciuti che si popolarono con Isadora. Lei simboleggiò il mio cammino verso la libertà.

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Isadora Duncan

A vent’anni presentai il mio primo spettacolo nel Teatro del Pueblo, mia madre prese le tende di casa per fare i miei vestiti di danza.
Ho tentato di cercare altri mezzi che si trovassero dentro il mio corpo, senza concentrare la preoccupazione solo in quelle piroette o nell’equilibrio sulla punta del piede che stavo imparando.

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Fu così che imparai ad incontrarmi con nuove musiche che non erano le classiche. Intuitivamente arrivai all’impressionismo e alla naturalezza di Ravel, Fauret, Debussy e Erik Satie, che mi aiutarono a sentire il mio corpo attraverso un mondo di immagini nuove. Incomincia a penetrare, a scavare nel mondo del silenzio, visto che per la prima volta sorgevano in me forme senza suono che mi facevano impressione, perché non si appoggiavano alla musica.

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Quelle danze nel silenzio furono un ponte di comunicazione che mi aiutò anni dopo a incontrarmi, attraverso lo spazio, con i sordi.
La connessione culturale che mi circondava ha avuto grande influenza in quel periodo della mia adolescenza. Il movimento della giovane pittura argentina, i componenti del gruppo Orion, pittori, registi, scultori, poeti influivano nei miei lavori.
Le loro conversazioni e il loro lavoro attraverso il simbolismo del cubismo e l’onirico cominciarono a popolarmi di immagini nuove e mi diedero la possibilità di raggiungere incontri di danza più profondi. (…)
Quello che sto raccontando non è soltanto il desiderio di mostrare la mia adolescenza attraverso la danza, ma mostrare anche il progetto del mio cammino senza guide, senza maestri, in nome di quella forza misteriosa e poderosa che appariva sulla mia pelle, che era ed è il di cammino di molti giovani che cercano una verità nuova. (…)

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La generosità e l’appoggio di Leonidas Barletta, che per molti anni mi ha ceduto il Teatro del Popolo, mi permisero di concretizzare questa possibilità.

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(…) L’incontro con la tecnica contemporanea si realizzò realmente quando presi la borsa di studio a New York. La Fondazione Williams mi diede il biglietto e arrivai negli U.S.A. nel 1952, dopo grandi lotte: le istituzioni che potevano pagarmi il biglietto (io allora ero terribilmente povera) erano favorevoli ad elargire borse di studio a scienziati e tecnici e non a una giovane ballerina che aveva dieci anni di danza nel teatro del Popolo e voleva studiare con Martha Graham per imparare finalmente la tecnica cercata.
Portai il mio bagaglio, un vecchio giradischi e i miei dischi a 78 giri, dove tenevo tutto il mio repertorio. Un vecchio baule che mi aveva prestato un’ amica conteneva il mio vestiario, fatto di tende ed altri tessuti incredibili, cucito da mia madre; lattine di latte, corned beef, caffè e cibi che i miei amici mi portarono come regalo d’addio.
Al mio arrivo mi aspettava uno zio che si sorprese nel vedermi con tale bagaglio. La prima cosa che fece fu presentarmi nello studio di Martha Graham e chiese la possibilità di una borsa di studio: non mi fu concessa.
Quando arrivai la segretaria mi disse scocciata il costo, non c’erano alternative.
Mi iscrissi e chiesi a mio zio i soldi per pagare la prima settimana di lezioni, mi diedi da fare per trovare un lavoro, per mantenermi e restituire quel prestito; l’ottenni mediante amici delle linee argentine, nella quinta strada: mi diedero il posto dell’ultimo sguattero; io, illusa, avevo portato come presentazione per il gerente, il mio fascicolo di danza dei dieci lunghi anni di lavoro a Buenos Aires.
Andai a vivere a New York, per un anno lavorai dalle nove del mattino alle tre del pomeriggio e avevo mezz’ora per pranzare: un pezzo di torta e un latte macchiato e certe volte un panino.
Studiavo dalle quattro alle otto di sera. Il giorno successivo ricominciavo.
Voglio raccontare questo perché penso sia importante sapere che ho sempre desiderato avere dei professori e che la loro ricerca è sempre  stata terribilmente dura.
La mia illusione era studiare, studiare con Martha, ma lei non dava lezioni nel gruppo elementare nel quale ho cominciato ad imparare cosa era una contrattura o una slogatura.
La classe era gestita da uno dei suoi aiutanti ed il mio inglese era così povero che non capivo bene le parole, imparavo in forma limitata e angosciosa.
Quando finii quel primo corso, passai a quello successivo dove avevo un contatto diretto con Martha comprovando che lei era sulla cima della montagna…era impossibile parlarle e l’atmosfera che si creava intorno a lei la faceva assomigliare ad un dea.

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La mia piccolezza e la mia forza di volontà erano allo stesso livello. Sapevo per quale motivo ero in U.S.A.
Avevo lasciato mio figlio di sette anni e la mia vita in Argentina per qualcosa di importante: l’incontro con la tecnica. Oh, povera illusa!
Volevo che Martha vivesse le mie coreografie (sapevo intimamente che avevano qualche valore) perché avevo bisogno dell’opinione di un’artista come lei per continuare a progredire.
Con Martha era impossibile comunicare; io avevo superato un anno nel quale sentivo la mancanza dei miei e la mancanza di alimentazione (i 45 dollari settimanali che guadagnavo servivano per pagare la mia stanza, i miei viaggi, il cibo e le lezioni).
Un giorno nel corso di una delle lezioni, per eccessivo sforzo, sudando in abbondanza e presa da una gran debolezza, sono svenuta; allora, finalmente, lei si accorse di me.
Mi mandò a dire da un suo assistente che non la pagassi più e che mangiassi carne, giacchè noi argentini non possiamo vivere senza.
Così ottenni la borsa di studio.
Si avvicinava la data della mia partenza; era passato un anno. In quel tempo conobbi il dipartimento spagnolo in varie Università dove, in cambio di vitto e alloggio, danzavo durante i fine settimana. Ogni lunedì ricominciava il mio lavoro presso le Aerolinee Argentine, le lezioni e i miei sogni, con lo stesso fervore delle mie danze.
Un giorno alla fine delle lezioni, finalmente l’irraggiungibile Martha Graham rimase da sola con me.
Fu nell’ascensore. Con il mio scarso e cattivo inglese la supplicai – mi rimanevano solo pochi giorni e poi sarei tornata in Argentina- di guardare le mie danze. Accettò guardando il suo orologio: mi avrebbe concesso mezz’ora il giorno dopo. Quella fu una notte infernale, ripassai a memoria tutte le mie danze e tutte mi sembravano molto scarse. Finalmente arrivò il momento. Lei mi stava aspettando ed io, con i miei dischi sciupati, iniziai a ballare di fronte a Martha. Ormai non mi importava più niente, quella era la mia meta. Lei, che aveva la conoscenza della danza, mi guardava veramente!
Senza guardare l’orologio cominciò a chiedermi di più, fino a che, dopo un’ora, io non avevo altro da darle e mi sedetti di fronte a lei.
Allora con la sua voce gutturale mi disse:” Sei un’artista, non cercare maestri fuori di te. Non avere paura di fare danze teatrali, sei un’attrice. Continua a cercare dentro di te il più possibile. Ritorna in Argentina e non aspettare nessun maestro. Il tuo maestro è la vita”.
Capii il suo linguaggio ed ancora oggi, dopo tanti anni, le sue parole hanno valore per me e io…continuo a cercare.

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(da Maria Fux “Frammenti di vita nella danzaterapia”)